Le forze di sicurezza palestinesi consentono ai giovani di avvicinarsi ai soldati israeliani non per fomentare le violenze, ma piuttosto come modo per far sbollire la loro rabbia, nella speranza di evitare un’escalation.
di Amira Hass, Haaretz 6 ottobre 2015
Le forze di sicurezza palestinesi hanno compiuto sforzi enormi per migliorare la propria reputazione nella società palestinese. Parecchi siti di informazione hanno appena riferito che le forze di sicurezza nazionali hanno impedito ai soldati israeliani di arrestare alcuni minori che avevano tirato pietre contro una postazione militare ad est di El Bireh. Tutti i media pubblicano i numeri di telefono del comitato di collegamento della sicurezza palestinese, in caso di attacchi o di altri problemi con i coloni, la cui incidenza è cresciuta parecchio durante il lungo weekend festivo (Sukkòt e Simchat Torà, festività ebraiche, ndt). In alcune città le forze di sicurezza palestinesi hanno bloccato giovani palestinesi furiosi, formando una barriera di separazione tra loro e le posizioni dell’esercito israeliano, e li hanno anche fermati con la non irragionevole motivazione di temere per la loro vita.
A Betlemme, dove solo due settimane fa le macchine fotografiche hanno ripreso un uomo della sicurezza palestinese mentre picchiava senza pietà un giovane che cercava di avvicinarsi alla barriera di separazione e ad una vicina postazione dell’esercito israeliano, non hanno impedito le recenti dimostrazioni, in una delle quali è stato colpito a morte un minore. Ad El Bireh, dopo il discorso all’ONU del presidente palestinese Mahmoud Abbas della scorsa settimana, le forze di sicurezza hanno permesso a giovani palestinesi di sfogare la propria rabbia al vicino posto di blocco degli Uffici del Distretto di Coordinamento israeliani (facenti parte dell’Amministrazione Civile), il punto di passaggio dei personaggi importanti.
I manifestanti si raccolgono nella piazza adiacente, si avvicinano al posto di blocco, bruciano pneumatici e tirano pietre. L’esercito risponde con proiettili e gas lacrimogeni, e i poliziotti palestinesi sembrano voler dire: guardate, noi non stiamo cooperando con l’occupazione.
Mercoledì scorso, il giorno del discorso di Abbas all’ONU, e venerdì, il giorno del suo rientro dagli Stati Uniti, uomini armati e mascherati, che si sono identificati come membri delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, hanno imbracciato i fucili e sparato in aria, pericolosamente vicino ai curiosi che assistevano. Devono essere membri delle forze di sicurezza, ha detto un conoscente che stava guardando.
Le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, che sono state create nei primi giorni della seconda intifada da membri di Fatah e delle forze di sicurezza palestinesi, in realtà non esistono più. Chiunque potesse decifrare quello che dicevano al di sopra del rumore degli spari, ha sentito che apprezzavano Abbas ed il suo discorso. Domenica un portavoce di Fatah ha invitato tutte le organizzazioni palestinesi a schierarsi con Abbas.
Più di qualunque altra organizzazione palestinese, le forze di sicurezza continuano ad essere fedeli ad Abbas e alla sua politica di opposizione alle rivolte, sia dei gruppi armati che popolari. Come lui, sperano ancora di evitare un’escalation militare. Permettono ai giovani di avvicinarsi alle postazioni dell’esercito israeliano non per fomentare la violenza, ma piuttosto come modo per consentire loro di sfogare la propria rabbia, sperando che l’ultimo scoppio di violenza si esaurisca. L’incerta condizione politica di Fatah preclude la possibilità di concordare regolari incontri, ancor meno di dirigere una nuova intifada, soprattutto senza ripetere gli errori della seconda.
L’opinione pubblica palestinese spera in qualcosa che scuota lo status quo, la routine dell’oppressione. Gli eventi degli ultimi giorni hanno influito sull’atteggiamento: tutto sembra più immobile, la gente è meno propensa a uscire di casa senza motivo, non solo a Gerusalemme est, ma anche nelle città della Cisgiordania. Le strade delle città e le vie della Cisgiordania sono meno affollate, sia a causa dei nuovi posti di blocco dell’esercito che della paura dei coloni.
Ma ci sono segnali che la popolazione non è ancora pronta per una terza intifada: lunedì si è svolto, come programmato, uno sciopero di docenti nelle università della Cisgiordania per motivi salariali; è previsto che continui oggi e nella prossima settimana. Per fare un confronto, quando è scoppiata la seconda intifada l’unione degli insegnanti decise di sospendere una lotta salariale che durava da tempo.
Le forze di sicurezza palestinesi possono lasciar sfogare i giovani dimostranti, o bloccarli. Ma non hanno controllo sul fattore principale che è la causa dei recenti scoppi di violenza: l’esercito israeliano, il servizio di sicurezza dello Shin Bet e la polizia israeliana. Le proteste in Cisgiordania, e non solo a Gerusalemme, dei giorni scorsi sono esplose a causa dell’ordine di impedire temporaneamente l’accesso alla Città Vecchia per i palestinesi e dell’uccisione di Fadi Aloun, di Isawiyah: un video divenuto virale tra i palestinesi mostra un ufficiale di polizia che apparentemente accoglie le richieste di giovani ebrei ultraortodossi e spara ad Aloun quando si è staccato dal gruppo, dopo aver presumibilmente accoltellato un ebreo. Quell’ufficiale, o un altro, continua a sparare ad Aloun mentre si trova a terra, uccidendolo. Per i palestinesi, il messaggio è uno solo: il loro sangue può essere impunemente versato.
Nei primi giorni della seconda intifada, quando l’esercito israeliano ha impiegato mezzi letali per reprimere le dimostrazioni di massa, uccidendo molti manifestanti, non ha fatto che infiammare gli animi. I giovani palestinesi hanno spinto i loro padri e fratelli nelle forze di sicurezza ad non usare le loro armi solo contro il proprio popolo, ma anche contro i soldati. Fatah ha incominciato a competere con Hamas su quale organizzazione fosse migliore nel fare vendetta. Fatah ha perso, ovviamente.
Anche se tutti i dirigenti delle forze di sicurezza palestinesi sono oggi coscienti dei risultati devastanti della seconda intifada, se Israele persiste nella sua politica di punizione collettiva e di escalation mortale, le forze di sicurezza palestinesi si troveranno nuovamente di fronte ad un difficile dilemma morale, personale e professionale. Hanno ragione di pregare, insieme ad Abbas, che l’escalation abbia termine.
fonte: http://www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/.premium-1.678961
( Traduzione di Cristiana Cavagna)